The Marculaz diary

22 Ottobre 2004

0.16: RIP
Fra la 110ma e la 150ma strada, a nord/nord-est di Central Park si estende pigra e inosservata la leggendaria Harlem.
Non ci ero mai stato seriamente, per cui decido di dedicargli una domenica pomeriggio. Scendo dalla "A" verso la 135ma e inizio a vagare ad est lasciandomi alle spalle il finto-montuoso St.Nicholas Park, dominato da quello che sembra un parcheggio multipiano (scopro poi che é il NY city college,... anvedi che zozzeria). La "Harlem" di nome e di fatto, alterna qualche bel block di brownstones residenzialotte ad orride aree pre-fluviali tutte palazzine e monnezza. Non c'é neanche una caffetteria, solo Fast Food e Chiese, Chiese e Fast Food. Evidentemente Chiese e Fast Food svolgono in quest'area lo stesso tipo di servizio, procurando ai loro avventori una veloce e passeggera sazietá.
Ad Est, ("East Harlem") la situazione dovrebbe farsi piú tesa (questo é uno dei pochi posti rimasti davvero "no", a Manhattan, mi avevano detto), ed infatti cammino fra case abbandonate, case puntellate, palazzi-deserti-in-cui-hai-appena-visto-un'-ombra-muoversi-dietro-le-finestre etc. etc.


Harlem


Ancora estasiato per aver finalmente trovato un negozio che venda carne di coniglio (unico problema: i conigli sono vivi e vegeti... piú problematici da brasare, se non vi piacciono i peli) mi imbatto in alcuni isolati in fondo non male (a sud della 125ma, e ad est di Park ave), una specie di Lower East in versione piú triste. Un bizzarro edificio a metá fra una chiesa battista e un piccolo palazzo governativo di Washington DC é la sede della "Ny Academy of mathematics". Immagino ipotetici accedemici scendere da taxi e car services e affretttare il passo verso questo edificio cosí assolutamente fuori luogo. O ghetto-boys scoprirsi genii dei numeri grazie alla guida di Robin Williams e surclassare snobbosi w.a.s.p. in cardigan al simposio annuale. The End.
Passo davanti al tempio della cucina italo-americana "Rao's", ammiro gli scoiattoli oversize (i rifiuti dei mille fast food dei dintorni devono entrarci qualcosa...) e l'immensa piscina all'aria aperta di Jefferson Park, e mi dirigo verso la stazione della "6" (notabilmente, citata da Jennifer Lopez nel suo album d'esordio: "on the 6") poco o nulla impressionato. E neanche qualche incontro valido sulla metropolitana.

Mi sono accorto che da alcuni mesi qui é tutto un po' diverso per me. Non riesco piú a scrivere, a raccontare ció che mi succede. Le cose scivolano nella normalitá, l'emozione diventa esperienza. Non so se ho fatto bene, non so se me ne pentiró, ma ho deciso di chiudere le pagine di questo diario, almeno per un po' (sono mesi che non scrivo comunque, bella forza, direte voi. Infatti, dico io).
New York é fredda, ormai. Un anno fa giravo ancora in maglietta (forse..., ho un vuoto di memoria), ieri ho acceso il riscaldamento di casa mia per la prima volta. Un gorgoglío stentato ha animato il pavimento, piccoli radiatori orizzontali si riempivano d'acqua calda sotto il mio sguardo vigile. Come se guardarli cosí li avesse potuti far scaldare prima. Comunque era davvero freddissimo in casa, per dire.


m+

20 Luglio 2004

0.15: Travelling files
Fuori dalla Mela per un fine settimana lungo e patriottico (4 luglio, festa d'indipendenza). Destinazione Cincinnati, Ohio. La cittá natale di Evan (e di Sarah Jessica Parker) dista un paio d'ore di volo e per ben rappresenta il fantomatico "midwest" di persone obese, minivan 4x4, catene di fast food mai sentite ("HoneyBee"?, "WhiteCastle"??, "Skyline"???) e elettori repubblicani che ridono quando GWB fa una battuta.

Sala giochi


Il rapido volo su un aereo Fisher-Price mi trasla in questa inedita realtá in maniera del tutto indolore. Cincinnati é piuttosto grande e popolosa: 5milioni di abitanti sparsi sui colli che circondano un ansa del fiume Ohio, a pochi kilometri dal confine col Kentucky, che a volte si oltrepassa anche andando da un posto all'altro all'interno della cittá. Clima caldo e umido, aria biancastra e pesante, molti grandi parchi pubblici, belle case di mattoni rossi, alcuni ghetti davvero "tosti" in pieno centro cittadino, persone socievoli e rilassate, per quel che ho potuto constatare.

Tetto


Il gioco tradizionale del 4luglio é qui il minimale "Corn-Hole". Hai 4 sacchetti pieni di Mais (Corn...) e devi tirarli in un buco ( -Hole) posto su una piattaforma di legno. Se non centri (3punti) prendi punti anche a seconda di dove hai piazzato il sacchetto sulla piattaforma. Si arriva a 21. Detto cosí sembra una cagata pazzesca, o una versione "Redneck" delle bocce... ma ho passato ore e ore a giocarci sotto il sole a picco. Forse é un problema mio. Rubiamo una macchina dai 5 (5!) garages della mamma di Evan e dirigiamo verso Louisville Kentucky (pron. Lúivi(a)il). Louisville é per me una destinazione obbligatoria, e gli amici del "club del disco" che stanno leggendo sanno perché:


Mt. Adams


When it's time from work to go
in my boat I row
trough the muddy Ohio
when the evening light is fallin' (1)

...detto tutto.

Over the hine


Louisville é una cittá qualsiasi, con belle strade in sanpietrini e fantastici ponti che vannno da una parte all'altra di un Ohio immenso, che qui sembra davvero un lago. Il quartiere "Hip", Highland, é decisamente fuori mano, lo raggiungiamo in 10min. di auto ma ne vale del tutto la pena. Northside é una micro-cittá di casette, negozi di dischi, e altre cose (un negozio di videogiochi d'epoca! wow!). Intricati ammassi di cavi della luce, del tram, del telefono etc. delineano ogni strada, alcune traverse sembrano condurre a isolati piú rurali, dove le erbacce fanno capolino dalle fessure degli onnipresenti sanpietrini.

Cavi


Sembra un bel posto in cui vivere, in cui passare del tempo... sembra anche una vera e propriá "comunitá". I dintorni della cittá sono del tutto rurali. Deviando dall'autostrada, incappiamo in case col fienile, verdi colline, macchie boscose, cavalli, procioni e (visione da Zoo-Safari) un avvoltoio (!). Grande piú o meno come la nostra piccola automobile, nerissimo tranne che per una disgustosa testa rosso carne-viva, plana sulla strada proprio davanti a noi per nutrirsi di una carognetta qualsiasi a bordo carreggiata. Momento indimenticabile.

Scientology


Il resto delle mie giorrnate lo trascorro nel relax assoluto di giornate soleggiate, andando a concerti anche piuttosto validi, conoscendo amici ed amiche di Evan, mangiando, etc. Finiti per sbaglio in un grezzo "Bier Garten", paghiamo oro per mangiare pessimo cibo d'ispirazione austro-ungarica e assistere ad un concerto di 70enni in Lederhosen (le tipiche salopette di pelle con frange tanto in voga oltralpe). Quando da polke e mazurke si passa a "Satisfaction" (su richiesta di una culturista sbronza) non credo piú ai miei occhi e alle mie orecchie. La Culturista si lancia in danze imbarazzanti col marito (Berretto da camionista, baffi e Cannottiera nera) sotto gli occhi del figlio di 14anni che sorseggia perplesso un litro di Hoegarden. Il chitarrista (vi ricordo i Lederhosen e i 70anni di etá) parte per un assolaccio inatteso, sudato, selvaggio. Poi il dolore di schiena lo riporta alla calma e si torna a polke e mazurke. Momenti come questi invoglierebbero chiunque a possedere una videocamera.


m+

23 Giugno 2004

0.14: 2 from M+
C'é sempre una prima volta.
La mia: 19 giugno 2004. Festa del papá (americano), se non erro. E' ora di cena, dopo cena. Poco dopo. Stiamo riordinando, asciugando piatti, non so. Un fragore sordo e tetro, subito un altro, suoni bassi che si ripetono irregolarmente in una prima serie di 4-5 grossi rintocchi.
Ricordo di aver guardato Evan: prima con un certo distacco, poi al terzo, quarto tonfo, con interrogativitá, cercando i suoi occhi e trovando invece le sue parole. "What's that?". Solo questo "What's that", non un briciolo di spiegazione. I tuoni continuavano, piú vicini e sempre irregolari: esplosioni, senza piú alcun dubbio.
Siamo corsi per le scale lasciando la casa e salendo sul tetto: una scelta del cazzo, in termini di sicurezza, ma le esplosioni suonavano comunque piuttosto distanti. Volevamo vedere cosa stava succedendo e dove.
Il momento piú terribile é stata la manciata di secondi spesa sulle scale (4piani di corsa): arrivati al terzo piano potevamo giá sentire altre porte aprirsi, altre persone correre sui pianerottoli e salire. E' stata la sensazione di non avere avuto l'impressione sbagliata.
Sul terrazzo la nostra porta si apre in simultanea con quella dell'altra rampa di scale, tutti su, tutti naso in aria, tutti ci guardiamo l'uno con l'altro.
Le esplosioni sembrano provenire da dietro un grosso magazzino che sovrasta il terrazzo, si vede del fumo bianco e denso. Siamo vicini, molto vicini alla centrale elettrica di VInegar Hill, una delle piú grandi e importanti dei 5 distretti. Poi, finalmente, lampi rossi, verdi e scintillanti riflessi sui grattacieli della vicina Midtown, sulla sponda opposta dell'East River. Ció che non possiamo vedere, al di la del magazzino, sono i fuochi artificiali per il passaggio della torcia olimpica, cerimonia che si sta svolgendo a pochi isolati da noi. Gli artificeri hanno i loro stands a poche decine di metri da noi, su una chiatta. Osserviamo lo show col sorriso, chiedo ai vicini che é, e tutti mi dicono "the Torch, the Torch!". Sul momento non capisco una sega, ma per quel che ne so, va benissimo cosí.

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Il breve incontro con Ernesto-compositore-di-musica-d'avanguardia-di-professione (maggiori dettagli in seguito, forse), ci procura un invito ad una festa su Pacific avenue, fra Bedford Stuyvesant (Bed Stuy, pron. Bed Stái) e Prospect Heights, in zone di Brooklyn piuttosto fuori dai miei giri. Entrambe sono aree d'avanguardia in termini di mercato immobiliare e ridefinizione del tessuto urbano. Bed Stuy ha una bruttissima fama: molta droga e moltissima microcriminalitá, almeno fino a pochi anni fa (un loquace e rilassato autista giamaicano mi disse che Bed Stuy é ormai un luogo tranquillo, e che il crimine vero, a Brooklyn, non esiste piú. Un autiista giamaicano. Appunto), Prospect H. é un po' meno chiacchierato, ma urbanisticamente é piú squallido.
Uscendo dalla parte sbagliata della metro percorriamo due-tre isolati in Bed Stuy: bellissime brownstones di appena 3-4 piani e molti alberi, gente in strada, illuminazione funzionante, poco traffico, sembra. Potrebbe essere non male, ma ho in canna almeno tre (per quel che ricordo, e chi mi conosce sa quanto dimentico facilmente) storie di scippi o rapine accaduti nel vicinato di recente, quindi mi sfioro il portafoglio ogni 5 passi fingendo di ondeggiare le braccia (tecnica notevole, no?!). Ritornati sulla retta via, ci inoltriamo alcuni isolati in Prospect Heights. Lo scenario non é piú cosí piacevole: casette in legno a due-tre piani di nessuna qualitá, no alberi, marciapiedi scassati, officine abbandonate e nessuno in giro. Fuoristrada tamarri sfilano lentamente pompando hip hop da superclassifica, non é bello essere osservati e riconosciuti come ragazzi bianchi fuori posto. Accelerare il passo é l'errore piú grosso, molleggiare le ginocchia in modo appropriato puó dimostrarsi invece risolutivo. Arriva il momento di interrogare un raro gruppo di autoctoni sulla locazione della festa, che si fa sempre piú introvabile: un timido accento bruklinista per rompere il ghiaccio e il risultato é sorprendente. I tre dubbi energumeni seduti fuori casa vicino ad un radione (indovinate che genere di musica ascoltavano) si rivelano gagliardi, nonostante siano quasi del tutto invisibili al buio. Ci dirigono verso la festa a botta sicura, ci sono stati anche loro, non vi potete sbagliare, palloncini bianchi sul marciapiede. E i palloncini ci sono, infatti. La festa é in una segheria: electro pop, corona a tre dollari, mille ventilatori. Nel regno della segatura e del legname di scarto (notare che il party era inquietantemente sigaretta-friendly), molta bella gente che, al momento del mio arrivo, sembra starci ancora dentro. Infilo una terna di corone e faccio passare un'oretta abbondante, poi luci basse: é il momento delle performances! Il locale (stretto e cavernoso) viene invaso da ballerini in mostruosi costumi africaneggianti che coinvolgono tutti in un delirio collettivo estenuante e sfrenato al ritmo di ukulele e maracas. Da questa imprevista carnevalata si passa ad un numero di danza piú studiato ed intellettuale. La parola "Danza" é quasi inesistente nel mio vocabolario, quindi vi evito imbarazzanti/imbarazzate descrizioni: so solo che la tipa continuava a cadere e ricadere sul posto: una sofferenza per gli spettatori. Figuriamoci per le sue anche.
Si é fatto tardi. Usciti per una boccata d'aria, rientriamo al suono di un complesso latinoso: basso, chitarra e percussioni. I tre si danno da fare, sudano, assolano e canticchiano in spagnolo/inglese. Quanto basta per farci tornare su Pacific Avenue, cercare un taxi e andare a nanna.


m+

24 Maggio 2004

0.13: Summer in (and out) the city_
Un ritorno alla base all’insegna del caldo piú caldo, dopo le fresche (e noiose) pioggerelle di Roma e Pescara. New York suda a 33gradi all’ombra, ma la vita non é malaccio, considerando la massiccia presenza di condizionatori e il vento/venticello piú o meno costante che inonda i canyon delle avenues. I miei primi giorni sono stati all’insegna della riabilitazione alla vita locale a ai suoi ritmi, tuttora mi barcameno un po’ perso fra le varie valige e sacchetti di plastica che contengono i miei averi provvisori, aspettando il move-in nella nuova, agognata dimora di Williamsburg.
Per ora passo i pomeriggi post-lavoro ad imbiancare i muri della dimora (vuota come un insieme vuoto), cantando mentre lavoro di rullo, perché non c’é neanche una radio o che. In realtá non mi dispiace: lavorare alla casa é un modo per farci amicizia, e i muri verde foresta (una camera aveva addirittura le pareti in una specie di color oro anticato) erano davvero troppo, comunque.

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Scrivo col computer sulle gambe. la sedia non arriva al tavolo e scrivere sul letto non mi é mai piaciuto. Da quando mi sono trasferito in casa (con un provvidenziale letto gonfiabile a una piazza e mezzo, prestatomi da Gabriele, che giace attualmente nel vuoto del salotto) mi sento davvero provvisorio. La mia camera é ancora in corso di tinteggiatura, la casa consiste solo del letto gonfiabile, due sedie, un tavolo ed un armadio rotto ed orribile che aspetto di gettare. Vivere in mezzo (letteralmente) all’appartamento vuoto mi fa sentire come Robert Carlyle in Riff Raff, con la differenza che io pago anche l’affitto. Stanotte dovrebbe arrivare Adrienne con un paio di altre sedie a qualche altro mobile/mobiletto. Il weekend l’ho passato a Providence, Rhode Island, sede del RISD (Rhode Island School of Design), la scuola di Evan. Ci siamo andati insieme per una rimpatriata (sua) e per assistere agli shows di fine anno, praticamente le “tesi di laurea” dei vari architetti, artisti, grafici e stilisti che l’istituto sforna.
Providence é luogo natale di H.P.Lovecraft, e ho sperato per tutto il soggiorno di incontrare qualche luogo contrassegnato dal suo passaggio, tipo la casa natale, il pub dove si trovava con gli amici (quali amici?) etc. Mi hanno invece mostrato una presunta casa natale di Edgar Allan Poe, ma la mia memoria non lo collocava a Providence... beh, comunque la casa spaccava, ed una parte di essa era addirittura in affitto (!). Lovecraft mi é sembrato decisamente piú “mostro sacro” (di mostri sacri se ne intendeva...) in Italia che non in America. Persino a Providence, non tutti lo conoscono, e comunque anche chi lo conosce, dopo 3secondi ti sta giá parlando di Poe.
Il quartiere alle spalle del RISD é una figata di collinette ripide punteggiate di casette in stile vittoriano, con portici ombrosi e favolosi giardini. Tutte piuttosto antiche (in termini di storia americana, vetuste), tutte invariabilmente sinistre e deserte (nella presunta dimora di Poe, ad esempio, ci siamo inoltrati a livelli da violazione di domicilio senza sollevare una foglia). A coronamento del tutto, la prima chiesa battista d’America, una bella architettura “american-gothic” di legno candido, fresca e dolcemente spirituale, che domina tutto il colle.
La presenza di Italo-americani é fortissima, me ne accorgo quando il primo barista che incontro riesce a tradurmi con un dignitoso “succo di puttana” (whore’s juice), il “sugo alla puttanesca” che avevo citato per spiazzarlo.
Su un altro colle (in tutto sono 7, come quelli di Roma), infatti, c’é la locale “little italy”, che mette a dormire la microscopica versione newyorkese con un estensione ed una “fedeltá” davvero impressionanti. Famigliole di italoamericani ruspanti (i piú fecciosi sono detti “guidos”, che simpatia) si recano nelle varie mangerie per il brunch domenicale e cosí facciamo noi. Il menu nasconde insidie, io colaziono abbastanza bene con polenta, carne alla griglia e uova alla benedict (per stare leggeri ci buttano su pure un toast grosso come una mezza pagnotta di pane intriso d’aglio e olio e un’ “insalata” con peperoni sott’olio e noci), ma le mie amiche inciampano su french toast tanto massicci da essere immangiabili e dubbie tortine d’aragosta che sapevano di Pollack d’Alaska.
Per smaltire decidiamo di camminarci la via fino alla stazione degli autobus (linee “Bonanza”) e incappiamo in un incredibile gruppetto di gondole ormeggiate in uno dei canali della rete fluviale (del tutto artificiale) che abbellisce (?) downtown Providence. Coi loro 15 metri di lunghezza e 4 di larghezza, queste vere e proprie SuperGondole a motore sono ideali per il trasporto di massa di italoamericani che non rinunciano a nulla pur di sentirsi a casa. Un vero lusso. Dimenticavo: un’amica di Evan ha infilato 10 (!) bustine di zucchero bianco nel suo caffé del mattino. Dopo averlo fatto, ha chiesto alla cameriera del latte scremato al 100% per allungarlo: sai com’é, per la salute, questo ed altro.
Non riuscivo a stare senza scriverlo.


m+

6 Marzo 2004

0.12: ivegotabike // death by confetti // & more
(ri)splende il sole sulla grande mela finalmente, non ci posso credere, inverno terribile, arrivato sottovoce e passato (?) a fatica, finalmente il termometro torna sui 10, 15 gradi (notare che gioisco per delle normalissime temperature invernali). Cittá, persone e cose che rivivono, finalmente. Finalmente.

Ultimamente ho scritto quasi nulla, lo so, le visite di mio fratello e di Asa mi han reso assai lieto, e il lavoro su entrambi i fronti (design e galleria) va a pieno ritmo.

Lavorare in galleria mi sta facendo scoprire Williamsburg, zona a nord di Brooklyn che io stesso ho bollato su questi diari come un covo di alterno-fighetti. Beh gli AF non mancano certo, ma tengono le loro all-star vintage comprate a 80 dollari (identiche in tutto e per tutto a quelle contemporanee, in vendita a 35) lontane dai miei passi, quindi ok.

Il fatto é che W.Burg straripa di roba da fare, e questo non mi lascia indifferente. Concerti ogni 2 secondi, piú di 40gallerie, moltissimi locali ganzi (come quello da cui sto scrivendo, un piccolissimo caffé arredato come un capanno da caccia nella foresta nera, con l’aggiunta di inquietanti grafiche in stile esoterico-massonico).

Se le case costano ormai quasi quanto quelle di Manhattan, la vita continua a convenire, e i fornai polacchi svolgono lo stesso servizio di sostegno-miserabili-e/o-giovani che tocca alle comiderias del Lower East Side o ai mille “Wok” di Chinatown.

Se l’inverno é stato il necessario momento di scoperta della New York “al chiuso”, la primavera lo sará per tutto il resto, immagino. Passeggiando in un mercatino delle Pulci di Alphabet City, proprio ieri, non ho resistito al richiamo dell’iconografia Niuiorchese e ho fatto mia (per 35$) una bici da corsa favolosa, con un pedale rotto. Sistemato il pedale, l’ho provata proprio ieri notte sul ponte di Manhattan (una corsa splendida, sopratutto nella parte in discesa, che sembra non finire mai, come la salita). “a sweet ride”, come direbbero qui.

Con la bici da corsa, sono un niuioirchese vero, e ora mi tocca esplorare “le terre ove niún va”, Harlem, Bronx e Queens. La mia conoscenza di alcuni dei peggiori cessi di Broolklyn non mi soddisfa piú, voglio “the real thing”, e ne ho avuto un assaggio proprio la settimana scorsa prendendo il coraggio a due mani e butttandomi col mio amico Jorg (scusa Jorg, non troveró mai la “o” sbarrata su ‘sta tastiera) nel trambusto continuo di Roosvelt Avenue, nel Queens, per una visita a ció che la guida di Jorg definiva “il mondo in una strada”.

L’avenue in questione é un coloratissimo accrocchio di bodegas, comiderias, negozi di articoli sportivi e moda “ghetto-fab”. Il “mondo” della nostra guida si rivela essere composto di una fortissima maggioranza di ispanici, ma la mescolanza di etnie é comunque pazzesca. Su tutto e tutti regnano sovrani i negozi di roba a 99 cents, una vera istituzione locale. Comprereste 12 hamburger surgelati a 99c? Io stavo per farlo, poi ho deciso di non voler rievocare i tempi pre-muccapazza in cui li compravo ad un prezzo quasi competitivo al discount sotto casa (il rancidissimo DICO di viale Alberti di cui un paio di voi destinatari dovrebbe ancor aver memoria).

Comunque, il mio assaggio di Queens mi ha lasciato curioso, non ci tornerei di notte (é evidentemente “NO”, e lo dico con una sicurezza e una lievitá di spirito totali, credetemi) ma alcune cose spaccano... e per esempio c’é il Flushing Corona Park, dove si gioca Flushing meadows! (wow!, direte voi).

(...)

tempo fa, per caso e a fatica, mi han trascinato nuovamente nel Bulgarian Bardi cui vi avevo giá parlato tempo fa.

Restío per il biglietto di ingresso (10$ apparentemente del tutto ingiustificati), stavo per perdermi la serata assolutamente piú figa da quando sono qui a NY. Il DJ (un baffuto bulgaro di nome Kutz) ci ha portati letteralmente al delirio collettivo passando dal Pakistan al Giappone alla Polonia a Toto Cutugno (!) senza alcuna esitazione, in una personalissima panoramica sulle migliori/peggiori dance-tracks dell’orbe terracqueo. L’apice del tutto: Kutz in piedi sulla consolle imbraccia la chitarra e si sgola su alcuni dei classici della sua band, i Gogol-Bordello,accompgnato da uno spagnolo che in piedi sulla consolle pure lui afferra il microfono e aggiunge una valida nota di incoerenza col suo ispano-rap. Io nel frattempo frustavo l’aria con la mia cinta (vero, purtroppo) e godevo dell’atmosfera squisitamente europea del locale.

(...)

Ieri notte sono stato ad un mega party con tutte le amenitá immaginabili: simil-centrali nucleari gonfiabili, un organo a canne a gestione pubblica, punk band per dodicennni, hardcore band per diciannovenni, simil-Kocani Orkestar per ventiquattrenni e alcool (e altro) per tutti. Ad un certo punto abbiamo iniziato a notare le cartoline e i ritagli di giornali che c’erano un po’ ovunque... beh, il party era stato organizzato per aiutare un artista locale a ricostruirsi la faccia (letteralmente). E qui viene il bello, perché la storia di sto tipo é davvero esilarante (mi dispiace per lui ma...)

Mr. Jack-Qualcosa, praticamente, si é fatto saltare in aria mezza faccia cercando di costruire un CANNONE A CONFETTI!!!

La performance che stava preparando prevedeva l’utilizzo di armi da fuoco modificate per essere inoffensive e “sparare” gelato, confetti, caramelle etc. Ma qualcosa, nella messa a punto del pezzo forte (il cannone a confetti, appunto) deve essere andato storto. Mr.Jack, oltre ad avere migliaia di schegge di confetto conficcate nel proprio cranio e buciature gravissime ovunque, si trova ora a dover fronteggiare diversi capi di imputazione per detenzione illegale di esplosivi e persino (c’era da aspettarselo) un’accusa di terrorismo, per fortuna subito rientrata.

Pensatene quel che vi pare; IO sto giá pensando di acquistare qualcosa di suo (bomboniere-bomba? fruttini di marzapane velenoso? lecca-lecca alla loctite? raudi alla banana?) in prospettiva di un aumento delle sue quotazioni.


m+

15 Febbraio 2004

0.11: 27/01/2004 // primi di febbraio // Volume Clash
27/01/2004
La mattina di venerdì 23 gennaio 2004, mi sveglio leggero, mi vesto più leggero del solito (la città é ricoperta di neve, e ciò la rende meno fredda) e vado in ufficio super leggero, senza borsa.
Arrivato al quarto piano, tutti sono in piedi; e guardano me. Tutti quelli che dovrebbero essere seduti a lavorare (arrivo sempre un po’ più tardi degli altri) sono in piedi, o vagano per l’ufficio, o guardano me, come già detto.
Mi avvicino e mi viene rivolta la parola. Mi viene rivolta la parola e penso ad uno scherzo. Penso ad uno scherzo e vedo avvicinarsi un poliziotto, due poliziotti, tre poliziotti. Mi hanno rubato il portatile. Hanno svaligiato l’ufficio durante la notte.
Dopo una camomilla, qualche pugno sul muro e qualche parola di conforto, mi trovo carta e penna e inizio a fare una roba surreale: scrivere tutto ciò che avevo nel computer.
Non sono un nerd (checché se ne voglia dire) e la prova definitiva ce l’ho proprio in questa occasione: nessun backup di tutto cio’ che é successo nella mia vita digitale da settembre ad oggi, e probabilmente nessun backup sostanziale della mia posta di sempre e delle mie fotografie, fotografie, tonnellate di fotografie.
Scrivi scrivi, mi accorgo di poter recuperare alcune cose importanti che pensavo perdute e di averne irrimediabilmente perse altre. Fogli e fogli di carta stenografica rappresentano il contenuto di un portatile a me personalmente carissimo, succeduto peraltro ad un computer da tavolo che mi era stato ben piú che caro, e che mi sono sempre pentito di aver venduto. Nel disco rigido di quel portatile c’erano una massa enorme di ricordi. La “Memoria”… ecco perché la chiamano cosí.


primi di febbraio
Vengo convocato nell’ ufficio del boss nel bel mentre di qualche serena attivitá di tracciamento curve o impaginazione o finta impegnatezza in generale. Domani ci sono gli stati generali dello studio in cui lavoro: tutti i partner a colloquio nella biblioteca del Columbus Circle (Uptown) per un dibattito su passato, presente e futuro dello studio. Dress code= abito scuro e cravatta, portare macchina fotografica + 4rulli, preparare materiali di presentazione + discorso (!) dul sito web e la nuova grafica aziendale a cui sto lavorando. Sembra facile.
Il Columbus Circle é il piú antico club (un tempo per soli uomini, ora aperto anche alle donne) di Italo-Americani “arrivati”. Il luogo ha il gusto del potere. Nelle legnose, sfarzose, decadentemente vittoriane sale del club, generazioni e generazioni di italo americani di fascia alta o altissima hanno tessuto le trame che han permesso alla comunitá italoamericana di arrivare a spadroneggiare in tantisssimi campi dell’economia americana e, in sostanza, di non dover essere piú “comunitá” per sopravvivere.
I ritratti di dozzine di passati presidenti (tutte facce da galera o, se preferiamo, da italiani d.o.c., stretti in gessati sartoriali) occhieggiano dalle pareti.
Non é permesso togliersi la giacca in tutti gli ambienti del Club (escluso il bagno), l’uso di telefoni cellulari e macchine fotografiche non é normalmente consentito. Se si vuole dell’acqua e la botttiglia e i bicchieri sono a due centimetri, si deve comunque chiamare un valletto che te la versi, ecc. ecc.
La riunione di colletti bianchi e incravattati si protrae per ore. Scatto qualche foto, dico due cazzate, mi annoio, arrivo persino a sbirciare un volume della libreria, una collezione di foto dei passati galá del Club, annate dal 71 all’ 85 (fighissimo).
La tastiera é veramente troppo poco per descrivere la cena, il primo vero e proprio pasto Italiano che consumo negli USA. Mozzarelle di bufala fatte da loro, pomodori sapidi (incredibile), gnocchi che neanche mia nonna, cantina allucinante con un sacco di annate epocali etc. etc.
La sensazione di trovarsi nel “Padrino” é comunque costante, e al ritorno a casa do’ una controllatina sotto le lenzuola onde evitare teste di cavallo inattese. Niente, per ora, speriamo che le foto siano venute bene.


Volume Clash
la carenza di concerti nella mia vita niuiorchese sta raggiungendo punte di irrazionalitá. Perdo i Notwist per un inatteso tutto-esaurito, Cat Power per una svista nell’acquisto dei biglietti, un festival dedicato alle musiche di John Cage per ignoranza e Dizzee Rascal per un errore con le date.
Lo scazzo del concerto di Dizzee Rascal mi lascia comunque con la voglia di vedere il locale dove il concerto sui sarebbe dovuto tenere, il “Volume”, e cosí decido di andarci un paio di sere dopo per un DJ set piuttosto chiacchierato. Nelle grandi sale del locale (una fabbrica di vernici fino a pochi mesi fa) il DJset in questione si rivela essere nien’t altro che : “just 2 kids playing their favourite mp3s” (azzeccatissima definizione di mio cugino Lee). Ma il locale si articola in altri spazi: un’altra grande sala interamente occupata da un camion a rimorchio colossale appare quasi deserta, mentre un angusto passaggio porta ad una saletta quasi sotterranea, dove i DJs scadenti si apprestano a far da base ad una posse (si dice ancora cosí?) di rappers.
Beh, dal primo all’ultimo minuto, i giovinastri mi agganciano, e anche il beat si fa piú scarno e interessante. Dopo un tot il gruppo si lancia in un Sound Clash (lo so, sono spericolato con questi termini..non sono sicuro della loro esattezza, se vi va corregetemi pure), scatta insomma il freestyle selvaggio e competitivo e alcuni spettatori si fanno avanti per condividere il microfono e i rischi del confronto. Io devo essere davvero fuori dal mondo, cioé, non pensavo di essere cosí a secco in fatto di cultura hip hop... fatto sta che uno scontro di freestyle non l’avevo mai visto e questo qui, anche a giudicare dalla reazione entusiasta della folla di autoctoni, é davvero qualcosa di grosso. A farmi letteralmente andar fuori di testa é uno strano tipo: bianco, capelli lunghi, sguardo basso, non fa parte del gruppo ma si porta avanti e prende il microfono quasi a tradimento. Sulle prime, gli altri della posse sono disponibili alla cosa e il tizio inizia a sputar giú rime anche lui, con una forza e una cattiveria assurde, sempre guardando in basso, in tutto e per tutto esterno al contesto ma di gran lunga il migliore. Va a finire che il microfono glielo devono letteralmente strappare dalle mani, ma il pubblico é tutto con lui, una scena stranissima: la folla ha eletto il suo campione? Non riesco ad entrarci dentro al 100%, devo ammetterlo, mi ci vorrebbe una guida. O una maggiore costanza nella frequentazione di questo ambiente. Per come sono messo ora, tutto mi sembra nuovo e, in un certo senso, finalmente davvero contestuale. Mi spiego meglio: queste persone parlano la loro lingua e riferiscono della loro realtá nel loro contesto sociale di appartenenza. Se gli senti dire le loro solite menate del tipo : "mi frega solo dei soldi e della figa, sono gangsta dentro, non puoi sbagliarti, le mie parole sono tutto ció che ho e ho intenzione di ramazzarci piú soldi e figa che posso..etc. etc." ti viene da pensare che non ci sia nulla di male, perché quella persona non ha davvero nessuna altra possibilitá se non fare piú casino degli altri, azzeccare piú rime degli altri, sistemare piú "affari" degli altri etc. Quando avevo 18anni c'erano ragazzi della mia etá che rappavano parlandoti di Rancitelli e Zanni (i peggiori quartieri di Pescara), mutuando l'estetica dell' outlaw tanto cara a tutta la musica di strada americana e soprattuto afroamericana. Era bello identificarsi in una realtá cosí affascianante, ma il gioco era fasullo, e il contatto con gli "originali" di quella cultura mi ha scioccato. Davvero.


m+

8 Gennaio 2004

0.10: special limited issue (?)
su un curioso libretto di Beppe Severgnini (orridamente tradotto in inglese), ho recentemente letto queste parole: "Non si VA in america. Si TORNA in America. Anche se é la prima volta"

Forse é vero. l'immagine dell'america (sciroppo al technicolor che, fin da piccoli, noi tutti si prende contro i raffreddori della vita), é davvero IN noi.
Posso confermarlo per alcune cose, lo smentisco per altre. Non riesco a decidermi.
Severgnini viveva a Washington: una città assai diversa da NYC. Più "americana" per tanti versi, portabandiera di pregi e difetti, capitale vera e riconosciuta. Una città con qualcosa per tutti.
New York non mi da questa impressione, forse sbaglio, e di sicuro il conforto dell'esperienza mi é negato, ma inizio a vederla come un luogo da cui andare e venire, non un luogo in cui "stare".
Troppo dinamica per solleticare un desiderio di stabilità, troppo piacevole per rinunciare ad un tentativo di stabilirsi, troppo costosa per il 70%dei suoi abitanti (che vivono in case comuni fino a 45 anni, età in cui, di solito, si prende una casa a Brooklyn o nel NewJersey per crescer meglio cani e cuccioli d'uomo)...la lista dei "troppo" potrebbe continuare all'infinito ed includere parole come scarafaggi, ruggine, bollette, affitto, caldo, ratti, freddo, hipHop & RnB, rumore, neve, smog etc.

Nel frattempo:
1) non vedo l'ora di spantofolare sulla moquette rosso ferrari del mio nuovo appartamento-Comune Insurrezionale a Chinatown (48 market street, 10001, New York, NY, se dovete spedire fiori, soldi o, più banalmente, lettere).
2) non vedo l'ora di rivedere i miei amici, conoscere i miei nuovi 9 coinquilini (!), e riabbracciare la mia donna, che non ricordo neanche più com'é fatta (ho una foto da qualche parte, cercherò di memorizzarla per evitare di abbracciare la sua coinquilina, all'aeroporto)
3) non vedo l'ora di essere lì, in generale, perché ho lasciato un sacco di cose in sospeso e ho assaggiato un tot di possibilità che sono ancora esattamente dove erano quando le ho assaggiate, e se non le mangio andranno a male. O loro o io.
4) non vedo l'ora di sapere chi di voi sarà il primo a venirmi a trovare. C'é un candidato piuttosto "forte" per marzo... ma chissà...


m+

--- N.Y. Calling (2003) ---


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